Filologia dell’anfibio.
Diario militare.
di Michele Mari
Laterza, Bari, 2009 - 235 pagine; 12 euro.
Io che scrivo questa recensione sono fermamente convinto che l’abolizione del servizio militare obbligatorio – in una parola, la naja - si rivelerà alla lunga un danno per la formazione della gioventù italiana; che trascorrere un anno di vita in un mondo parallelo alla Matrix sia stata per me, vent’anni fa, un’esperienza di interesse certo, e l’ultima occasione di conoscere valide persone nate e cresciute al di fuori del mio ambiente naturale; che sbattere via il tempo rimanga una prospettiva di valore, e che l’opportunità di vivere per un anno lontano da casa e a spese dello stato, in un regime di vita sano e senza responsabilità alcuna, non sia certo da gettare. Allora ho imparato molte cose che mi sono servite, dopo. Ve ne passo una: se quattro superiori devono firmarti la licenza, almeno uno di questi ti vorrà male. Per forza. Provate a lavorare in una grande azienda, e verificate se non è vero. Ho appreso un sacco di parole ed espressioni nuove, o dal significato a parte, tipo la stecca, il cubo, la bolgetta, la borga, la vecchia, il capo spina, il minuto mantenimento, l’ordinaria, la stupida, il PAO. Ho sparato, letto quintali di fantasiosi fumetti porno, pulito lavandini rasi di vomito. Ho capito che gli stronzi esistono, ma sono una minoranza. Ho memorizzato canzoni struggenti come L’inno dei congedanti e Il silenzio. Ho interiorizzato la legge che affossa il merito, quella faccenda di cui tanto si parla, in Italia: ho imparato che l’anzianità fa grado.
Tutti argomenti sconosciuti a troppe generazioni, almeno dal tempo, mi pare negli anni novanta, in cui pareggiarono a dodici i mesi del servizio civile e di quello militare, prima di abolire l’obbligo per entrambi. Proprio a quella stagione risale Filologia dell’anfibio, il libro in cui Michele Mari racconta la sua vita in caserma. A Como, nel 1979. Un libro con un pregio assoluto: rievoca con precisione pedissequa tutte le regole e le perversioni di un anno da recluta (anzi: da spina). Ristamparlo oggi che sono state dimenticate e non vengono più tramandate di scaglione in scaglione significa adempiere a un dovere dinanzi alla Storia. Ogni capitolo riguarda un luogo oppure una tappa nella giornata di un militare di leva, e se andassero mescolati il senso non cambierebbe. Titoli sparsi, sempre a proposito di parole: Camerata, Contrappello, Armadietto, Spaccio… Quando serve Mari si aiuta con dei disegni. Ma attenzione, è un libro contro, non è nostalgico (non potrebbe esserlo, né io, per non rovinarvi il piacere, posso dirvi il perché). Come scritto in seconda di copertina, una testimonianza di quella “enorme, flagrante demenza, non priva di una astuzia tignosa, che fa del non-senso il proprio unico senso”, e che si chiama servizio militare. Si può leggere per due strade, però: indignati dinanzi agli infiniti luoghi oscuri e i Comma 22 (ricordate? L’unico motivo valido per chiedere il congedo dal fronte è la pazzia; chiunque chieda il congedo dal fronte non è pazzo); oppure abbandonandosi a una bonaria, deplorevole indulgenza. Avviso ai naviganti: Mari non scrive come ormai siete abituati a leggere. Trascrivo una frase a caso: “Ma così come il truce Tuscano era un buono, così il vago Dora era l’essempro de tucte le perfidie, ché mai n’incontrai altro sì vafro nel provocar scientemente occasion di caduta, nello scogitar nova spezie di gastigo al collapso.” Sette segni rossi del correttore di google.
lunedì 27 luglio 2009
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