Casa degli Atellani. Courtesy by Fondazione Portaluppi

lunedì 1 marzo 2010

Recensione del giorno

Il sangue è randagio
di James Ellroy

Mondadori, Milano, 2010 - 859 pagine; 24 euro


Dopo otto anni di attesa interrotti soltanto da antologie di racconti scritte ad occhi chiusi, prima di Natale nel mondo e a gennaio in Italia è uscito finalmente Il sangue è randagio, l’ultimo romanzo di James Ellroy. Il terzo capitolo della trilogia “USA Underground” sulla storia sotterranea degli Stati Uniti, cominciata nel 1995 con American Tabloid e proseguita poi con Sei pezzi da mille. A 61 anni James Ellroy è un divo, uno dei pochi della letteratura contemporanea. Coltiva la sua fama rilasciando ciniche interviste, dove civetta con la sua immagine di razzista e di duro. Si concede ai lettori in incontri pubblici che sono dei veri happening, non si tira indietro rispetto a qualsiasi forma di promozione, ha fatto un’inquietante apparizione in tivù al programma di Fabio Fazio. Sei pezzi da mille aveva messo in crisi anche i suoi lettori più fedeli. Periodi secchi, mai una frase subordinata, una scrittura incalzante dove i dialoghi fra i personaggi e le trascrizioni delle telefonate intercettate suonano come oasi di pace e di comprensione. Con gli anni il linguaggio di Ellroy si è sempre più rarefatto, ma lui stesso ha ammesso di avere esagerato con Sei pezzi da mille e per Il sangue è randagio è tornato a una scrittura più rotonda, dove appare qualche complemento oggetto e dove ogni aggettivo è comunque necessario e descrittivo, mai umorale. Lo schema di base dei romanzi della trilogia è sempre lo stesso: Ellroy sceglie tre personaggi maschili e li segue mentre tramano e interagiscono con una massa distinta di figuranti e criminali di ogni livello, sullo sfondo dei peggiori complotti d’America e con la credibile partecipazione di alcuni esimi protagonisti della storia reale: dai cattivi patentati come i capi mafia e Howard Hughes ai fratelli Kennedy o Richard Nixon. American Tabloid comincia nel 1958 e si chiude a Dallas, il 22 novembre 1963; Sei pezzi da mille arriva fino al 1968 e agli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy. Il sangue è randagio copre i primi quattro anni della presidenza Nixon e si chiude alle porte del Watergate, con un altro morto eccellente meno popolare in Italia, ma che l’autore presenta da sempre come il vero deus ex machina del dopoguerra nel suo paese: il capo dell’FBI Edgar J. Hoover. La trilogia “Usa Underground” segue cronologicamente la tetralogia di Los Angeles, quattro romanzi per quindici anni di vita criminosa nella città. Sette libri in tutto da leggere in fila per declinare il tema definitivo di Ellroy: l’epica dell’America nel ventesimo secolo, una storia di cattivi uomini bianchi, raccontata per le gesta dei loro servi e di quanti hanno avuto in sorte il lavoro sporco. Il titolo più famoso è forse il primo, La Dalia nera, la storia dell’insoluto e brutale assassinio dell’attricetta Elizabeth Short che nel 1946 sconvolse Los Angeles (pochi anni fa ne è stato tratto un film, un’occasione perduta diretta da Brian De Palma). Ne Il sangue è randagio Ellroy eleva per la prima volta al ruolo di coprotagonisti due neri e soprattutto due donne, come non succedeva dai tempi della Dalia e di Los Angeles, strettamente riservato, che un’altra servitù cinematografica negli ultimi anni ha reintitolato L.A. Confidential. Le parti esotiche di Sei pezzi da mille riguardavano il Vietnam, quelle di American Tabloid Cuba (i preparativi per l’invasione e lo sbarco fallito alla Baia dei Porci restano fra le pagine migliori di Ellroy): con macabra preveggenza, le parti esotiche de Il sangue è randagio si svolgono ad Haiti, in un delirio di riti voodoo. Isolate alcune differenze come la sottotraccia romantica de La dalia nera, il linguaggio sperimentale di White Jazz o la folgorante intuizione di mescolare personaggi reali e fittizi in American Tabloid, tutti e sette i libri di Ellroy non presentano cedimenti di tensione, di preparazione e di qualità. Il sangue è randagio si allontana in parte dalla storia con la esse maiuscola e rimette in piedi una sorta di indagine poliziesca, ma a costo di rivelare spoilers confesserò quali sono le pagine che lo imprimono davvero nella memoria: i malinconici addii alla vita di Dwight Holly, Wayne Tedrow jr. e Marshall Bowen, tre superuomini di James Ellroy. Come se, alla fine del più delittuoso e intrigato decennio della storia d’America, non ne potessero più di tramare o uccidere e cercassero solo la pace, una compagna, una vita (almeno in parte) tranquilla. Dopo circa novecento pagine subentra una nuova tristezza: sembra che Ellroy, al momento, non voglia proseguire la sua fatica. Il seguito temporale del libro porterebbe naturalmente allo scandalo Watergate, ma l’autore sostiene che è già stato raccontato troppe volte (anche in diretta), e che troppi protagonisti sono ancora vivi per poterli esporre al trattamento dovuto. Dice di avere in mente un’altra tetralogia, ma scaramanticamente non ha spiegato di che si tratta. In compenso già questa primavera uscirà per Bompiani The Hilliker’s Curse, il seguito de I miei luoghi oscuri, un nuovo memoir. I cultori già sanno di che cosa parla I miei luoghi oscuri. Nel 1958 Geneva Hilliker, la madre dello scrittore, venne uccisa da un presunto e sconosciuto corteggiatore: negli anni ottanta Ellroy riaprì il caso per se stesso e, con l’aiuto di un poliziotto in pensione, cercò invano di scoprire chi fosse l’assassino. Per strada scoprì finalmente chi fosse sua madre. The Hilliker’s Curse non è ben chiaro di che cosa parli, ma credo che parli di donne. Ellroy racconta che lo lasciano tutte. Non vedo l’ora. Nel libro La città di quarzo l’urbanista Mike Davis scrive che i romanzi noir “ridisegnarono l’immagine di Los Angeles come inferno urbano senza radici”, ma che il genere “si trasforma in delirante parodia nella scrittura eccessiva di James Ellroy.” La tetralogia sarebbe, secondo i diversi punti di vista, “il punto più alto raggiunto dal genere o la sua reductio ad absurdum”. Buona la prima. (il.p.)



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